Iustum est bellum, Samnites,
quibus necessarium et pia sunt arma
quibus nulla nisi in armis
relinquitur spes.
(Livio, Ann. IX-I,10)
I
Partimmo alla volta di Cipro con l’intento di provocare disordini e tafferugli. Il mattino cigolava felice come le molle di un materasso a ore sotto il peso della barca appoggiata al filo del mare. Tutto sommato una bellissima giornata. Coi gabbiani lassù che volavano felici e gli albatri ancora più su a dirci:
“Bravi sì,poeti…..navigate, navigate!”
“Se lo chiappo lo inculo.”
Esordisce Telemaco senza fare 1 grinza.
In men che non si dica la costa dell’isoletta felice ci salutava da lontano radiosa e sorridente, immersa nell’azzurro del cielo, del mare. Troppo azzurro, a me non piace un granché, è un colore da pigiama, ma non c’entra. Ci salutava, dicevo, solenne come il famoso bue che guarda i campi liberi e fecondi. Nessun problema, fin qui. Ercole, scroccato un passaggio, governava il guscio di noce con perizia e abilità.
“Ne ho viste io” sospirava, ne aveva viste lui
“Ne ho viste di quelle io” ne aveva viste di quelle lui
“Eh ragazzi quante ne ho viste” ne aveva viste una cifra
“…sapeste…”
“Ercole?”
“Sì?”
“Vaffanculo!”
Giungemmo quindi allegramente nella baia schiumosa del porto e attraccammo in mezzo ai candidi yachts con culi abbronzati a perizoma di serie. L’Ercole ci sparisce nella boscaglia dopo aver rubacchiato qua e là, poco perché non c’era niente saluta e se ne va dietro a certi affarucci suoi, roba grossa, tipo mostri o mogli incazzate, dei veri draghi comunque.
Telemaco vede le barchette con fica da mezzomiliardo al colpo,esce fuori spalmatissimo d’olio, in braghe corte:
“Mh…che figgo! quasi quasi mi ti farei!”
“Levati dalle palle Ciccio!”
“Mh…che uomo!” e scendo le scale
“Senti pazza lasciami stare, ho il mal di testa!”
E via e via, siamo in nuca totale, veramente.
Un vecchio grinzato, un lupo di mare diresti, ci guarda camminare splendenti nel mezzogiorno.
Un vecchio uscito da una collezione modamare estate-inverno e mai più rientrato, sicché è rimasto qui, solo. Il vecchio e il mare ci guardano. Il mare sta zitto, il vecchio parla:
“Minchia carusi! è stato bellissimo, sembrava la pubblicità della vita!”
Il vecchio ci spiega quindi che ormai è tardi, Venere era già nata, già venuta su dalle bianche spume dei flutti, senza un gorgo, un vortice a increspare l’albicante incedere delle onde. Si era alzata come un delicatissimo grilletto sulla fica dell’acqua. Un fiore, candido giglio callipigio-callichioma-callitutta (belloculo-bellicapelli-bellatutta).
E c’era musica, tanta musica, una musica grande e santa come un coro Blues Brothers di neri veri e vestiti male: lei rideva e i neri cantavano, più quella rideva, più loro ci davano dentro. Non mancava niente: fiati, chitarre, tastiere, Ray Charles che rideva:
“Io ridevo dice il vecchio ridevo e cantavo come non facevo dai
Mondiali dell’82, 3 a 1 ragazzi, che storia!”
Probabilmente scherzava.
Comunque la Cipride era già passata e noi non avevamo più un cazzo da fare.
“Potremmo darci alla liposuzione!”
dico, indicando una discreta babbiona, calmantisi gli scompensi ormonali con un discreto daiquiri.
“No, meglio berci su!”
Carezzai comunque la canna dell’Ak47, mentre dirottavamo verso il bar.
“Cuba Libre!”
“Per due.”
“Grazie.”
Annaffiammo il Cuba con discreti panini all’olio e occhiate alle servette sode sode per niente longilinee, per niente Guess Jeans, che sfarfallavano intorno.
“Tanta robina” la cosa più bella che si può dire.
Ma sbriciolare mollica bianca sul tuo corpo spalmato d’olio, com’è che ti chiami?
“Elena.”giusto.
Sdraiata sul tavolone di legno tra insalate, pomodori e fiaschi di vino. Io apro la bottiglia d’olio e spalmo, lei guarda e ride, bella con quei denti bianchi e sinceri e tutte le curve senza silicone, senza rossetti al cromorubinio con le mani unte sulla pancia mi guarda e ride e si fa sbriciolare il pane addosso. Io tocco fianchi antichi come i colli e gli ulivi immersi nell’aria salata, nel vento che porta storie e ricordi di antichi mortali e mi accendono l’anima per questa battaglia sul desco imbandito del corpo.
Io mi nutro di pelle salmastra e gemiti e olio che cola tra le tue gambe, tra pieghe di muscoli e carne condita dal sole. Io, non so come dirlo, mi inchiavardo dentro di lei al suono dei liuti, al canto delle sirene; dopo mangiamo olive, appiccicosi e sorridenti come due imbianchini gay che si sono spennellati a vicenda. Niente di tutto ciò.
Al terzultimo Cuba finisce tutto. Tra un po’ è quasi pomeriggio finito, quando i raggi si allungano e l’aria è fresca sulla pelle bollente.
Al penultimo Cuba arrivano i fidanzati.
Il biondo cazzone bacia Elena; accarezzo l’Ak47 che gocciola piombo di gioia. All’ultimo Cuba Telemaco dice:
“Pago io e andiamo via.”
”Io l’ammazzo quello.”
“Buono Ciccio, non facciamo casino, è solo una bellissima fica, vera,
soda sincera magari: dove la ritrovi un’altra così? Lascia stare.”
“Ciccio non mi era mai piaciuto tanto, comprendido hombre?”
“Sì, sì tu le vedi, tu ci pensi, t’innamori, ma chi te lo fa fare?”
Nessuno dico io a questo bastardo. C’involiamo verso gli yachts, quanti mostri panciuti pieni di altri mostri panciuti. Facciamoli saltare in aria, ho un Ak47 giusto no? dovrei usarlo per un cazzo di motivo, una giusta causa, per la causa.
Esplodono i serbatoi e loro scappano, buzzoni e troie e noi tiriamo. Alle troie no, quelle le consoliamo dopo,
dai Ciccio,
spacchiamo tutto. L’Ak47 sta zitto. Niente.
Sdraiato sotto il sole evaporo il Cubaron dai pori, il Comandante Ernesto mi guarda con un sorriso e un po’ di disprezzo. Piango un po’. L’Ak47 è un giocattolino in confronto al coso che sto infilando in culo a Elena e lei ride e sorride con me per me di me.
C’è a malapena un Sole tutti i giorni in una sola vita.
Andiamo via.